5 febbraio 2018

Il femminile come risorsa per i legami sociali

di Antonella Loriga

Quando in psicoanalisi si parla di questione femminile non si riferisce alla donna come categoria. “Non è riducibile in un opporsi al maschile, ma ridefinisce la problematica etica del soggetto”1. La posizione femminile sembra dunque interrogare l’essere umano, uomini e donne, sulla possibilità di occupare una posizione diversa da quella fallica, del tutto.

La questione femminile è legata alla domanda d’amore. Come è possibile fare legame con un altro che rimanga altro, diverso, e quindi separato?

Nelle masse gli individui attraverso l’amore per l’oggetto ideale, il leader, si identificano tra loro, divenendo una massa uniforme. “A questo amore dell’Uno che genera il medesimo Freud oppone precisamente l’amore delle donne.”2 Quella che Freud chiama asocialità femminile non è nient’altro che la resistenza delle donne alla massificazione dei legami3, fenomeno che, la storia da sempre ci insegna, è portatore del pensiero unico e di conseguenza di totalitarismi pericolosi e mortiferi.

L’essere “non tutta” sul versante fallico sottolinea che la posizione femminile manca di qualcosa ed è una mancanza strutturale quindi non correggibile e aggiustabile ed è questo a renderla una prospettiva vitale di apertura all’inatteso.

La portata sociale è data proprio da questa predisposizione a non saturare e quindi ad accogliere senza inglobare elementi di estraneità. E questo è alla base dell’avanzamento della civiltà. Senza apertura al nuovo non c’è movimento e senza movimento la collettività rischia di collassare su se stessa.

Non è però una città delle donne la soluzione così come scrive provocatoriamente Francesco Stoppa nel suo libro La costola perduta. “La mancanza da sola non può realizzare un insieme ne costruire un ordine del mondo. Può però esercitare un ruolo civile, rappresentare un elemento critico, un punto di sana dissidenza all’interno degli insieme e dell’ordine costituito.”4 Il punto aperto rimane “come mettere in tensione reciproca la questione del padre, cioè la legge, con quella della mancanza, della domanda d’amore”5 propria del femminile. Appare chiaro che non c’è nulla di naturale nella costruzione dei legami, ne amorosi ne sociali, ma è un processo creativo che implica la costante messa a lavoro di tutti i componenti della collettività.

C’è un versante di risorsa del femminile e allo stesso tempo un versante di turbamento che la stessa posizione femminile provoca. In questa prospettiva è possibile dare una lettura della violenza di genere di cui la storia porta tanti esempi, dalla caccia alle streghe del seicento alle cronache attuali sulla violenza domestica e non.

Se da una parte l’identificazione fallica agevola il bambino, rispetto alla bambina, sul piano della rappresentatività, dall’altra la scoperta del sesso femminile è quel perturbante che minaccia quella stessa rappresentatività ponendolo davanti alla propria mancanza, un vuoto dal quale sembra sentirsi precipitare. L’irrisolto della differenza sessuale rende il contatto con la donna una vicinanza problematica e difficile che rinnova questo perturbante davanti alla mancanza. Questo in età adulta può tradursi in forme di inibizione nevrotica, come il distacco affettivo ma può arrivare all’esercizio della violenza. La violenza sembra voler mettere fuori da se qualcosa che sente lontano ma allo stesso tempo terribilmente vicino, la sua stessa mancanza. C’è un’altra possibilità, o forse sarebbe corretto dire che ci sono altre possibilità, singolari e soggettive, per non porsi davanti al mistero delle femminilità in modo fobico e violento. Queste possibilità sono date dall’esperienza della mancanza o come meglio precisa Francesco Stoppa dall’“esercizio della mancanza”. Anche qui non si tratta di idealizzare la mancanza in quanto tale ma di, appunto farne una pratica che ha come effetto di “aprire varchi nei nostri sistemi mentali e materiali, mantenerli aperti, rivisitare criticamente in nostri riferimenti ideali e questo significa garantire un posto all’umano”6.

 

1 J. Lacan. (1962-1963) Il Seminario. Libro X. L’angoscia. Giulio Einaudi editore 2007, cit. p.201

2 Collette Soler. (2003) Quello che Lacan diceva delle donne. Ed italiana 2005. Ed. Franco Angeli. p.168

3 Ibidem. P.168.

4 F. Stoppa.(2017) La costola perduta. Le risorse del femminile e la costruzione dell’umano. Ed. VP. Cit. p. 111

5 Ibedem. Cit. pp.59-60

6Ibidem . cit. p. 59

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