31 maggio 2017
Autenticità: dalla maschera al volto
di Eleonora Fronio
“Ciò che conosciamo di noi stessi non è che una parte forse una piccolissima parte di quello che noi siamo. E tante e tante cose, in certi momenti eccezionali, noi sperimentiamo in noi stessi, percezioni, ragionamenti, stati di coscienza che sono veramente oltre i limiti relativi della nostra esistenza normale e cosciente.” Pirandello
Che cos’è l’autenticità? Cosa vuol dire essere autentici? I greci davano al termine “autentico” il significato di “autore”, “che opera da sé”, ciò che ha autore certo. La parola è composta da Autòs (sé stesso) ed Entòs (in, dentro). Ciò rimanda a qualcosa che emerge dal proprio autore, come “atto vero”, non falsificato, privo di imitazione. Qualcosa che “operando da sé” esclude essenzialmente interferenze e condizionamenti provenienti da “altro”.
Autenticità è allora manifestarsi come portatore di una verità che viene dall’interno, della quale ciascun soggetto ha la funzione di esserne autore. Ecco allora che mostrarsi “autori di se stessi” si contrappone al divenirne “attori”, intendendo con ciò la differenza tra “essere” e “rappresentare”. Tanto più si è vicini alla propria verità interna, tanto più la spontaneità di sensazioni, pensieri, emozioni porterà ad un senso di sé pieno, integrato e radicato nella realtà. Al contrario, l’essere “come sé” (meccanismo difensivo di cui Winnicott ci ha parlato descrivendo la faticosa e dolorosa costruzione del “falso sé”) separa, spezza, interrompe la connessione profonda con se stessi, con la propria verità interna, con l’intimità dei vissuti psico-corporei. Quel “ponte” che permette il passaggio tra l’interno e l’esterno viene compromesso nella sua funzione di rendere l’individuo cosciente di se stesso, consapevole della propria realtà interna. Il processo di auto-coscienza si sostituisce a poco a poco con un auto-addomesticamento del mondo interno.
“Chi sono?” “Chi sono veramente”? E’ ciò che spesso, ad un certo punto della vita alcune persone si chiedono. Tale domanda non può trovare risposta se non in un graduale recupero del “sentire” se stessi. In un passaggio dal “pensare a come dover essere” al “sentire” ciò che esiste all’interno. La via di accesso all’intima verità necessita di essere “ricostruita” (in alcuni casi costruita ex-novo), ripristinando con essa il senso di sé affrancato sempre più da meccanicità e disconnessione, responsabili di sensazioni di “inutilità soggettiva”, alienazione da se stessi, dalla realtà e dalle relazioni. Ritrovare la “strada di casa” vuol dire riportare nella propria dimora la “dignità” e il diritto di essere, che rendono l’uomo “soggetto” vivo, connesso alle molteplici dimensioni interiori, con propri bisogni e desideri a prova d’autore.
Nella realtà in cui viviamo, fatta sempre più di immagine e tentativo di renderci “oggetti di noi stessi”, tutto questo è messo ancor più a dura prova. Ma come A.Lowen afferma “L’immagine è un’astrazione, un ideale e un idolo che esige il sacrificio dei sentimenti personali, [essa]…riduce l’esistenza corporea ad un ruolo sussidiario” Ma è nel nostro corpo, a partire dall’ascolto delle sensazioni, dei vissuti emotivi e delle riflessioni ne conseguono che è possibile identificare, conoscere e sperimentare ciò che ci abita. Nel nostro “corpo-casa”, spazio privato di architettura originale, luogo identitario e depositario di psiche, quali stanze abitiamo? Quali sono illuminate, quali al buio? Esploratore di se stesso l’individuo compie il viaggio: dalla maschera al volto, in un processo che conduce ad una crescente autenticità.
“Ahi quanto a dir qual era è cosa dura, esta selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinova la paura…;
…vedi la bestia…aiutami da lei”
“A te convien tenere altro viaggio”-rispuose
“poi che lagrimar mi vide”
“se vuoi campar d’esto loco selvaggio”
(Dante e Virgilio, primo canto dell’inferno).
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31 maggio 2017
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